Da poeta a poeta: James Harpur e Charles Harpur

FRANCESCA DIANO

N.B. Le parti in corsivo nel testo sono citazioni di versi di Charles Harpur.

Ringrazio l’editore Andrea Molesini per il testo, che è parte dell’antologia della poesia di James Harpur, Il vento e la creta, a cura di Francesca Diano, Molesini Editore, 2024.

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Lettera a Charles Harpur

a Charles Harpur

Caro Charles,

non mi sono mai spinto fino a Singleton,

a Jerry’s Palins o ad Eurobodalla,

la tua fattoria sopra il viottolo rialzato

con cigli erbosi ed eucalipti;

la tua tomba, e quella di Charles, tuo figlio

insieme incorporate presso la casa colonica.

Windsor l’ho vista, e invano ho cercato

di immaginarti ragazzo

da quel tuo dagerrotipo seppia –

come un vecchio soldato confederato,

barba fluente, biancogrigia,

sguardo sinistro da profeta Elia.

Accanto, il tuo amico, il fiume Hawkesbury,

che si snoda fra campi autunnali;

ed Omero che bisbigliava tra gli alberi –

i versi che più amo furono anche tuoi:

Come la genia degli uomini è quella delle foglie

alcune il vento ha disperse a terra, mentre altre

ancora spuntano sui rami fruttiferi,

per fiorire nella loro stagione. Così degli uomini

muoiono e si rinnovano le generazioni.

Hai scritto che, dopo che le alluvioni distrussero

la tua fattoria, il primo attacco di TBC

e la morte di Charles ti stroncarono.

Poi scrivesti il tuo proprio necrologio:

Qui giace Charles Harpur,

che a cinquant’anni

giunse alla conclusione

di vivere in un’epoca fasulla,

sotto un Governo fasullo,

e fra amici fasulli,

e che qualunque altro Mondo

dovrà essere dunque

un mondo migliore del loro…

A malapena sopporto il pensiero

del tuo purgatorio prima della morte,

all’appassire del tuo errante cercare

di trarre la verità dalla poesia

in un coraggioso e nuovo New South Wales

edificato dalla gentaglia del Vecchio Mondo

e dalle fustigazioni quotidiane: non meraviglia che tu veleggiassi

verso la piana nerovino di Troia

smistando lettere all’ufficio postale

o passassi quegli anni ad allevare pecore

per ricavarti del tempo per scrivere, per poi affrontare

la croce delle lettere di rifiuto.

Cosa ti ha sostenuto? La fede? O il timore

di incontrare Milton nell’aldilà?

O il magico ingresso delle idee

che apparivano come le tue oche in volo

che seguono il serpeggiare della valle, eppure

s’allargano in lunghezza e in alcuni luoghi

spesso si staccano in punti solitari.

O t’han rapito gli occhi della tua Musa –

due mezzenotti di pensiero appassionato

che nella mente ti hanno acceso immagini,

come quella del granchio sulla spiaggia, che attende

la sua preda fra le pietre lavate dall’onda

scintillanti al sole – e si accende di luce

quando si muove, quasi il suo guscio umido

andasse in fiamme.

I tuoi genitori t’han portato sradicato

in una terra di grog e marsupiali.

Hai mai chiesto a tuo padre, Joseph,

della sua infanzia a Kinsale?

O ti sei mai orientato con racconti

delle tue tradizioni familiari, quali quelle ch’io udii –

come, al seguito di Richard de Clare,

noi Harpur arrivammo a Wexford?

O del viaggio della bara di tuo padre

a solcare i mari del sud, per unirsi

alla tribù di Sisifo e forgiare

l’Ade agli antipodi della Britannia?

Ma tu, per i tuoi sogni condannato

ad essere il poeta laureato della tua nazione,

hai deportato te stesso in un regno

al di là delle Montagne Azzurre

ed hai scoperto… non la “Cina” –

lo Shangri-La delle fantasie dei deportati –

ma un cielo all’alba, alberi umidi di rugiada

e tutti luccicanti d’un velato argento;

o la sinuosa vallata delle acque;

o ampi ardenti campi, lieti di grano.

Sapevi che la natura ha una sorgente sacra

così come il sole è la fonte della luce

ed hai cercato di aprire gli occhi alla gente.

Ma non videro altro che un folle di Dio,

una voce che condannava nel deserto,

sacerdozi che restringono l’anima

incline al bere, all’autocommiserazione – ma che vedeva

in profondità nella vita delle cose:

e quel che è profondo è sacro, e deve tendere

a un qualche fine divino universale.

Fasulli l’epoca, il governo, gli amici –

qualunque luogo tranne Eurobodalla

ti parve una benedizione alla fine.

Immagino la scena sul tuo letto di morte,

la spettrale figura della Disperazione,

a testa china, fintamente afflitta;

ma anche Mary, seduta lì accanto

a ricordare il tuo corteggiamento; e scaffali

di pagine non lette, ibernate

come alberi d’inverno, per riaprirsi

in qualche luogo in una futura primavera,

di nuovo verdeggianti.

Letter to Charles Harpur

i.m. Charles Harpur (1813-68)

For Kevin Brophy and Penelope Buckley

Dear Charles,

I never got as far as Singleton,

Jerry’s Plains, or Eurobodalla,

your farm above the banked lane

of grassy verges and eucalyptus;

your grave, and that of Charles, your son

embedded by the farmhouse.

I did see Windsor, and tried in vain

to imagine you as a youngster

from your sepia daguerrotype –

like an old Confederate soldier,

waterfall beard, greyish white,

the baleful stare of Elijah.

Nearby, your friend, the Hawkesbury,

uncoiled through autumn fields;

and Homer was whispering in the trees –

my favourite lines were yours as well:

The race of men is as the race of leaves:

some the winds shed upon the ground, while still

the fructifying boughs put others forth,

to flourish in their season. So of men

the generations die and are renewed.’

You wrote that after floods ruined

your farm, the first flush of TB,

and Charles’s death had broken you.

Then came your self-obituary:

Here lies Charles Harpur,

who at fifty years of age

came to the conclusion,

that he was living in a sham age,

under a sham Government,

and amongst sham friends,

and that any World whatever

must therefore be

a better world than theirs …’

I can hardly bear to think about

your purgatory before death,

the fading of your errant quest

to wrestle poetry from truth

in a brave new New South Wales

constructed by Old World gentry

and daily floggings; no wonder you’d sail

to the wine-dark plain of Troy

as you sorted letters in a post office

or spent those years farming sheep

to scrape the time to write, then face

ordeal by rejection slip.

What kept you going? Faith? Or fear

of meeting Milton in the afterlife?

Or the magical ingress of ideas

appearing like your ducks in flight

following the windings of the vale, and still

enlarging lengthwise, and in places too

oft breaking off into solitary dots.

Or were you rapt by your Muse’s eyes –

two midnights of passionate thought

igniting images in your mind,

such as your beach crab, who waits

for his prey amid the wave-washed stones

that glisten to the sun – gleaming himself

whenever he moves, as if his wetted shell

were breaking into flame.

Your parents brought you rootless

into a land of grog and marsupials.

Did you ever ask your father, Joseph,

about his childhood in Kinsale?

Or orientate yourself with stories

of family lore, like those I heard –

how, in the wake of Richard de Clare,

we Harpurs came to Wexford?

Or of your father’s coffin-voyage

across the southern seas, to join

the tribe of Sisyphus and forge

the down-Underworld of Britain?

But you, convicted of your dream

to be the laureate of your nation,

transported yourself to a realm

beyond the Blue Mountains

and discovered … not ‘China’ –

the Shangri-La of convict fantasies –

but a dawn sky, trees moist with dew

and glinting all with a dim silveriness;

or the sinuous valley of the waters;

or wide warm fields, glad with corn.

You knew that nature had a sacred source

even as a sunbeam’s fountain is the sun

and tried to open people’s eyes.

But all they saw was a fool of God,

a voice de-crying in the wilderness,

soul-dwarfing priesthoods

and prone to drink, self-pity – yet seeing

deep down into the life of things:

and what is deep is holy, and must tend

to some divinely universal end.

Sham age, government, friends –

anywhere but Eurobodalla

seemed a blessing in the end.

I picture your deathbed tableau,

the spectral figure of Despair,

head bowed, pretending to grieve;

but Mary, too, sitting there

recalling your courtship; and shelves

of unread pages, hibernating

like winter trees, to open

somewhere in a future spring,

in leaf again.

(C)2024 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Antonin Artaud e il Teatro della “crudezza” per liberare l’uomo dalla crudeltà.

Mi sono spesso chiesta cosa vi fosse di crudele nell’idea di teatro come esperienza totale e universale dell’esistente, come presenza dell’Assoluto e labirinto di simboli che Artaud aveva maturato e a cui aveva dedicato infine ogni suo respiro. E se la traduzione della definizione di Artaud, “théâtre de la cruauté” con “teatro della crudeltà” (in inglese theatre of cruelty) non fosse del tutto corretta, anche se ormai universalmente accettata? Non sarebbe forse più aderente alla visione di teatro che egli esprime nel Teatro e il suo doppio, la resa con “Teatro della crudezza“, dato che non di crudeltà come comunemente la si intende si parla, ma più di crudo come rigore, austero, essenziale, depurato da qualunque possibile o persino impossibile elemento non permetta la totale fusione delle parti in un’unità abissale? Del resto crudezza è uno dei possibili significati di cruauté.

E’ nel vedere per la prima volta una forma di teatro non occidentale – il teatro balinese – che Artaud ha la sconvolgente rivelazione. In quella forma d’arte totale che è il teatro balinese trova una risposta. Non sa che l’avrebbe trovata, se vi avesse assistito, anche nel teatro-danza Kathakhali (anzi, lì ancor di più), o in altre analoghe forme d’arte teatrale, o sacra orientale, persino quelle più popolari e meno complesse. Quella è infatti la cifra delle sacre rappresentazioni d’Oriente, dove altra realtà non v’è se non il manifestarsi del Sacro e del numinoso in una sorta di sciamanica allegoria dei Primordi. E sopra ogni cosa, ad essere bandita dal suo teatro è la parola, la lingua come espressione suprema del lògos. Nessuna suadenza del pensiero espresso in modo articolato e mediato, nessuna ambiguità creata dalla parola, che infatti nasconde in sé, insieme al Bene, ogni Male possibile. La parola, che ha forgiato e forgia – oggi più che mai degradata e svuotata della sua potenza e della sua originaria nobiltà – l’Occidente. Di quanta crudeltà e ambiguità si può caricare la parola, quali orrori si possono perpetrare usandola come strumento di manipolazione e falsità? No, Artaud esige il Primordiale, ciò che esisteva prima della parola e per giungervi deve spogliare l’intera civiltà occidentale – e se stesso – di tutto ciò che impedisce al primordiale di emergere. Ecco dunque la crudezza, il necessario rigore nello sfrondare il superfluo, le superfetazioni, l’inutile che hanno sepolto l’Assoluto e l’Origine. Non la crudeltà. Anzi, proprio l’opposto! Crudezza per mondare della crudeltà! E all’origine c’è un grido, un grido che permea l’universo e genera genera genera genera. Quel grido che Artaud ben rappresenta in questo suo autoritratto e che è l’immagine della sua anima fattasi animale sacrificale.

Talvolta è dal grande dolore che nasce la luce accecante che ogni cosa rende Vera e fertile. Nel processo alchemico che per eccellenza sono la vita umana e l’arte, tutto ciò che è corrotto va combusto e sublimato perché nuovamente generi e poi, a sua volta si corrompa e ancora si purifichi e rigeneri. Senza questa purificazione – senza questa determinata rimozione del superfluo per lasciare solo il più profondo essenziale – non vi può essere visione del sublime, non vi può essere ricongiungimento all’Origine.

Francesca Diano

(C)2024 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Van Gogh’s Sunflowers. I girasoli di Van Gogh. A Poem by Francesca Diano

Dreaming of suns your fate denied you

You would’t bear their light

The violence of just a single ray

Reaching inside shattering your soul

With the cutting knife of clearness.

Your sunflowers a substitute

For the golden light of the Midi

You had yearned for your entire life.

And when you finally reached your golden Eden

Your sunflowers exploded

In a thousand arrows

Piercing the thousand blues

Of the skies you were furiously painting.

The light too blinding

Multiplying itself within you

In a caleidoscope of biting pain

Over the roaring desert of the world.

The last sunflower blooming on your gun

Stilling the spiralling stars

Of the Southern sky.

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Sognando soli che ti negò il tuo fato

Non ne avresti tollerato la luce

La violenza anche di un solo raggio

Che penetrasse a sconquassarti l’anima

Con l’affilata lama del nitore.

I tuoi girasoli un surrogato

Della luce dorata del Midi

Cui da sempre anelavi.

E quando infine raggiungesti

Il tuo Eden dorato i girasoli

Esplosero in mille punte di freccia

A perforare i mille azzurri

Che dipingevi preda del furore.

La luce troppo accecante

Ti si moltiplicava dentro e t’azzannava

In un caleidoscopio di dolore

Nel deserto ruggente del mondo.

L’ultimo girasole fiorì sul tuo revolver

Sì che le vorticanti stelle

Del tuo cielo stettero immobili.

(C) 2023 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Profumo di musica

A UdaiJi

Guruji stava rendendo visibile l’invisibile.

Via via che le note emergevano dalla sua gola e dalle labbra, dall’intero suo essere e si fondevano con l’aria che lo circondava, sembrava raccogliere con i palmi una sostanza vivente, volgendola e modellandola in forme fluttuanti.

Guruji era uno dei più grandi cantanti viventi di Dhrupad, lui era il Dhrupad, e si era sentita una privilegiata nel poterlo ascoltare dal vivo.

Dopo il concerto, erano andati a cena insieme a Guruji e al suo tablista. A tavola s’era seduta di fronte a lui. Era un uomo bello, di una bellezza antica, elegante e composta. Nonostante la sua fama, aveva in sé la gentilezza e la semplicità delle anime grandi, cui mai manca una punta di tenera ironia.

Racconti della sua famiglia in India e delle sue tournée internazionali si alternavano ad aneddoti sui grandi musicisti viventi e del passato, e attraverso le sue parole ogni cosa prendeva vita. Ogni cosa era armonia.

Pandit Uday Bhawalkar Raag Yaman

(C)2023 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Alicia Gallienne. L’altra metà del sogno mi appartiene.

Ma i tuoi sono ancora più puri

Di giorni e di notti.

I tuoi occhi aperti,

Li amo più e ancor più

Di quanto mai parrà…

Nel conforto della saggezza delle lune abitate,

Non ci sono per me rifugi migliori

Dei tuoi occhi dove sempre mi ritrovo,

Senza aver mai niente da chiedere.

Nel leggere il saggio introduttivo di Sophie Nauleau, io ho pianto a dirotto. Non per la tristezza di una vita falciata tanto presto, non per la tragedia di sapere comunque che quella vita che vivi avidamente presto terminerà, ma per il fulgore che Nauleau ha saputo trasmettere di questa donna/bambina che ha la saggezza di un’antica sacerdotessa e la sapienza di una figura angelica. Alicia, “che nel suo nome ha molte ali”, è la testimone che la lunghezza di una vita non si determina in anni, ma in esperienze vissute e in ciò che dietro di noi lasciamo.

Da giovane Carlo Diano ha scritto, pensando evidentemente a creature come lei: <<Nascono talvolta delle creature nelle quali pare che, per una sovrumana specialissima grazia, l’universo si sia compiaciuto. Non sono esse circoli chiusi di intelligenza e senso, ma restano attraverso ogni fibra della loro vita attaccati all’essere del mondo. Come quei prismi che tutti i lati raccolgono e rinviano la luce e l’immagine, così esse in sé riflettono con la mente le vicende delle cose, l’eterno. A differenza degli altri mortali la loro sensibilità non è circoscritta alle cose, ma per una aerea simpatia giunge nelle profondità misteriose dove si origina la vita. Sono queste creature come la parola incarnata dell’universo, esse esprimono nel rapido abbagliante raggio della loro esistenza, il significato eterno delle apparenze sensibili. L’anima loro non ha passioni, né tragedie, né convulsioni, piena dell’eterno scorre sulle cose come un’acqua montana che s’affretta all’oceano, né può lo spettacolo delle più lussureggianti rive trattenerle. Di rado esse s’incontrano. Ma quando ciò, per misteriose, sapienti leggi accade, allora tutto il chiuso ardore delle anime loro si muta in altissima fiamma che illumina il mondo.>>

Per acquistare il libro

(C) 2023 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Francesca Diano Fisiologia delle comete – poesie scelte. 1972 – 2017.

Non sono molti i poeti che pubblicano per la prima volta le loro opere alla mia età. In genere chi inizia a scrivere poesia (o anche prosa) da bambino e prosegue per tutta la vita, pubblica relativamente presto. In realtà fu Diego Valeri, il grande poeta, che mi conosceva fin da piccola, a voler pubblicare, quando avevo 11 anni, tre mie poesie sulla rivista Padova (ora Padova e il suo territorio) di cui era direttore. Non so se ho ancora quel numero da qualche parte. Quei brevi testi parlavano di vita e di morte e di fili su cui si posavano le rondini.

Credo di aver iniziato a pensare in poesia ancor prima di saper scrivere, perché mi dicono che parlavo in rima. Mi è sempre parso naturale e per me la scrittura è sempre stata poetica. La prosa la riservavo a saggi e articoli, e alla narrativa mi sono dedicata relativamente tardi, verso i 40 anni. Ma, quanto alla poesia, per me è sempre emerso prima il suono dei versi e poi le parole per modularlo. Non concepisco una forma poetica che non sia contemporaneamente musicale.

A 35 anni diedi dei miei testi ad Andrea Zanzotto, che frequentava casa nostra ed era amico di famiglia fin da prima di diventare famoso, per via dei rapporti con Valeri e Neri Pozza. Lui mi incoraggiò e mi disse di non smettere di lavorarci e che certe immagini gli piacevano molto. Nel 1988 venne organizzata una meravigliosa serata alla Sala dei Giganti dell’Università di Padova, intitolata Poesia e musica, a cui intervennero Emilio Mariano, allora sovrintendente del Vittoriale e grande italianista, che parlò dei miei testi, l’attore Filippo Crispo che li lesse, il Maestro Dalla Porta, compositore di musica e direttore del Conservatorio di Padova, il critico musicale Franco Fayenz che parlò di musica contemporanea e il Maestro Elio Peruzzi, clarinettista di fama, che insieme a un pianista eseguì brani di musica contemporanea. Il pittore Galeazzo Viganò disegnò una locandina di grande suggestione. La Sala contiene circa 500 persone, eppure quella sera dovettero mandar via gente perché non c’era più posto. Un’esperienza così non la dimenticherò mai. E chi potrebbe dimenticarla?

Poi la vita mi ha travolta e, pur seguitando a scrivere poesia, non mi sono dannata per pubblicarla. Avrei potuto fare come moltissimi, cioè rivolgermi a editori a pagamento; ma francamente la sola idea mi ripugna. Dunque ho pensato che, se qualcosa i miei versi valevano, prima o poi, magari postumi, qualcuno li avrebbe apprezzati. Del resto non mi sono mai data veramente da fare per pubblicare i miei testi poetici, non perché li ritenessi privi di valore. Sarei ipocrita se così dicessi. La mia è una poesia lungamente meditata, limata, stratificata, in cui non c’è nulla di lasciato al caso, anche se nasce sempre – come sa chiunque scrive poesia – da una sorta di illuminazione improvvisa o ispirazione necessaria. Non è un hobby o un passatempo. Ma non mi piaceva nemmeno avere a che fare con certi ambienti e meccanismi. Sono sempre stata un battitore libero. Dagli anni ’80 mi sono dedicata soprattutto alla narrativa e a un’intensa attività di traduttrice letteraria, tuttavia non ho mai abbandonato la poesia.

Poi arrivò Internet. E con Internet la possibilità di diffondere idee e testi. Così creai questo blog e cominciai a pubblicare moltissimi articoli di critica, ma anche traduzioni di testi poetici, riflessioni, memorie legati ai miei interessi di studio, ai miei percorsi di vita, ai miei incontri e alle opere e alla personalità di mio padre. E, varie mie poesie. Qualcuno le notò e così alcuni di esse vennero pubblicate da noti blog di poesia e su antologie cartacee di poeti italiani contemporanei. Infine pubblicai la raccolta Bestiario con Nerocromo Edizioni. Nel frattempo alcuni miei testi sono stati letti da valenti attori nel corso di alcuni spettacoli teatrali (come Il Minotauro, messo in scena nel 2021 dalla compagnia teatrale “Officina Poetica” di Cremona) e, quest’anno, in questa splendida edizione, è uscita questa corposa antologia. Voglio anche ringraziare Raffaella Bettiol, sensibile poetessa, donna di raffinata cultura e cara amica, per la sua illuminante introduzione. Fisiologia delle comete raccoglie insomma il meglio della mia intera produzione poetica a partire dagli anni ’70, tralasciando i testi degli anni precedenti. 

Il titolo nasce dal poemetto omonimo in quattro parti, che, posso dire, è una summa della mia poetica e della mia visione del mondo. Le comete, corpi celesti che mi sono sempre parsi affascinanti e misteriosi più di qualunque altro, mi hanno sempre incuriosita e affascinata e ritornano spesso come metafora nei miei testi. Da sempre convinta che non vi sia alcuna diversità fra le leggi della natura e i comportamenti umani, (“ciò che è in basso è come ciò che è in alto e così nel piccolo come nel grande”, secondo la legge ermetica di corrispondenza) per me la poesia è un’esplorazione e un’analisi della realtà come essa ci appare, ma come non è, e dell’animo umano, con una voce distintamente spirituale, uno strumento privilegiato per accedere a una visione trascendente ed entrare in contatto con gli universali.

Francesca Diano

(C) 2023 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

“L’eterno prisma dell’anima”. Un inedito di Carlo Diano del 1923

Prosegue il mio lavoro di scavo e scoperta degli innumerevoli tesori contenuti nell’Archivio di mio padre, Carlo Diano, rimasto per troppi anni in mani indegne, ma che ora sta restituendo sempre più a tutto tondo una figura straordinariamente affascinante, dalle mille sfaccettature. L’Archivio comprende non solo un epistolario che farebbe – anzi, farà – la gioia di qualunque storico, storico del pensiero, della letteratura, della storia delle religioni, dell’arte e della grecità, ma anche una notevole quantità di inediti, che non ho potuto inserire nel volume Bompiani perché all’epoca ancora non disponibili.

Dirò più avanti di quanto sto preparando al momento, ma, proprio a questo scopo, sto lavorando a una serie di quaderni di appunti che risalgono esattamente a 100 anni fa. Dunque riporto qui di seguito quanto ho trovato oggi in un suo quaderno del 1923 – 24, quando il giovane Diano era tornato a Monteleone di Calabria, oggi Vibo Valentia, dopo la laurea per una lunga supplenza al Liceo Classico. Fu per lui un momento di profonda crisi esistenziale. Per molti motivi. Penso che, chiunque legga questo testo, non possa, come me, evitare di sentirsene toccato negli strati più intimi dell’essere. A chi si riferisse non è dato sapere. E’ il testo di un mistico e di un maestro spirituale allo stesso tempo. Di un ragazzo di 21 anni.

Francesca Diano

<<Nascono talvolta delle creature nelle quali pare che, per una sovrumana specialissima grazia, l’universo si sia compiaciuto. Non sono esse circoli chiusi di intelligenza e senso, ma restano attraverso ogni fibra della loro vita attaccati all’essere del mondo. Come quei prismi che tutti i lati raccolgono e rinviano la luce e l’immagine, così esse in sé riflettono con la mente le vicende delle cose, l’eterno. A differenza degli altri mortali la loro sensibilità non è circoscritta alle cose, ma per una aerea simpatia giunge nelle profondità misteriose dove si origina la vita.

Sono queste creature come la parola incarnata dell’universo, esse esprimono nel rapido abbagliante raggio della loro esistenza, il significato eterno delle apparenze sensibili. L’anima loro non ha passioni, né tragedie, né convulsioni, piena dell’eterno scorre sulle cose come un’acqua montana che s’affretta all’oceano, né può lo spettacolo delle più lussureggianti rive trattenerle.

Di rado esse s’incontrano. Ma quando ciò, per misteriose, sapienti leggi accade, allora tutto il chiuso ardore delle anime loro si muta in altissima fiamma che illumina il mondo.>>

Carlo Diano, 1923.

Andrea Molesini, scrittoreditorepoeta dall’anima ardente.

Ho conosciuto Andrea Molesini grazie a un progetto che mi stava molto a cuore e che, con mia meraviglia, ha immediatamente trovato in lui un’entusiasta accoglienza. Dico con meraviglia perché, pur essendo la materia di straordinario valore e pressoché nuova per l’Italia, conosco molto bene il mondo dell’editoria – piccola, media e grande – ed è raro trovare risposte così immediate e sinceramente interessate. Questo è un uomo che sa riconoscere lo splendore appena lo vede – ho pensato – e non se lo lascia sfuggire; per un semplice fatto: che si ri-conosce negli altri solo ciò che tutto o in parte si possiede già. E questo tratto, che è anche segno di generosità, è fondamentale per chi voglia condividere, in qualunque modo questo avvenga, ciò che ama. Sarebbe in effetti il compito di chi vuole fondare e guidare una casa editrice. Lo ammiravo come scrittore e traduttore (non conoscevo il poeta) ed è stata una sorpresa scoprire l’editore. Un editore, per di più, che ha scelto di diffondere per il vasto mondo poesia, sia italiana sia in traduzione ma che sia, prima di tutto, di altissima qualità. Non i soliti noti, dunque, che affollano festival, riviste letterarie online, blog, interviste televisive o youtubiane, giornali, quotidiani, rotocalchi (ci sono ancora?) sempre le e gli stessi, tanto da far sospettare si tratti di replicanti o di sosia, ché il dono della bilocazione o trilocazione ce lo hanno solo i Santi.

Se come editore è giovane, quando definisce cosa sia per lui una casa editrice (“Una casa editrice è una comunità imbarcata in un fragile scafo che sfida il mare, l’àpeiron pullulante di demoni e di dèi.”) rivela una grande sapienza ed esperienza. Forse perché anche la scrittura è qualcosa di analogo, e poi quale altra metafora poteva scegliere questo “figlio del mare e delle pietre di Venezia”? Ma mi colpisce che in questa sua singolare definizione riverberi anche l’immagine del fortunoso viaggio di Brendano, che solcò mari ignoti e perigliosi con un pugno di confratelli per raggiungere le Isole dei Beati. L’ardore del santo, la follia dell’ignoto, l’amore per la parola e per la sua potenza trasformatrice io le ritrovo tanto nello scrittore che nell’editore.

Francesca Diano

D – Nel mondo complesso della letteratura ci sono molte diverse anime: c’è chi è nato per la narrativa, chi per la poesia, chi per la saggistica e poi chi si muove meravigliosamente fra tutte, magari arricchendo il già ricco quadro con il talento del traduttore. A me piacciono queste personalità molto eclettiche, che, come è naturale, sono rare. Tu sei una di quelle. Che tu sia anche un accademico è cosa che ti si perdona volentieri, dato quanto appena detto. Ma, e questa è cosa ancor più rara, sei anche un editore. C’è differenza e quale nella prospettiva da cui si pone uno scrittore e quella da cui si pone un editore rispetto al mondo della letteratura e dell’editoria? Trovarsi contemporaneamente dai due lati della barricata ha delle implicazioni?

R – Faccio l’editore da meno di un anno, non conosco ancora questo mestiere affascinante. Sto imparando, ogni giorno mi sembra di fare un passetto, spesso piccolo, qualche volta vado addirittura indietro, come un gambero, altre volte, per grazia o fortuna, faccio un passo in avanti che mi pare un po’ più lungo del solito. Tutto mi sembra illusorio, però, ho davvero poche certezze. Bisogna aver studiato molto per sapere poco, e io temo di non aver studiato abbastanza. Trovarsi dai due lati della barricata, però, non mi sembra un problema. I libri vanno scritti, pubblicati, distribuiti e venduti. Sono attività molto diverse tra loro e non sono sicuro che la prima sia la più difficile. Penso spesso alle parole beffarde di Vito Laterza, che cito a braccio: “Io faccio libri belli, se poi vendono pazienza”.

D – Potresti raccontare quale coraggio visionario ti ha portato a scegliere di fare l’editore, e per di più editore di poesia, in un momento così oscuro, ma anche così superficiale, soprattutto in Italia? E come scegli gli autori che vuoi pubblicare?

R – Ne Gli irati flutti W.H. Auden dice che più che temere la tirannia dovremmo temere la prostituzione. L’intellettuale dei nostri giorni rischia sempre di più di essere asservito alla richiesta di dare facile e immediato piacere, di distrarre. Credo che Orwell abbia esagerato nell’indicare il terrore come prima arma del potere, è la lusinga del piacere e del successo immediato che crea lo schiavo. Nel mondo che chiamiamo Occidentale la trivialità trionfa dovunque! Ricordo un aforisma di Karl Kraus: “Io mi esprimo in tedesco, se qualcuno non mi capisce mi rifiuto di tradurmi in giornalese”. Ecco, io credo che la poesia sia un antidoto al giornalese. Non chiede di piacere, disdegna l’applauso, ha il coraggio di essere meravigliosamente inutile, questo le costa la pubblica indifferenza, ma parla alle anime ardenti, e ce ne sono sempre in ascolto, poche, certo, ma ci sono. È un onore battersi con loro, per loro. Perché il desiderio dell’uomo probo è sempre qui, fra noi: vivere in semplicità, nella luce della conoscenza.

Come scelgo gli autori? Istinto, esperienza, fortuna. Mi avvalgo però dell’aiuto – davvero indispensabile – di meravigliosi collaboratori, amici appassionati tra cui ora credo di poter includere anche te. Una casa editrice è una comunità imbarcata in un fragile scafo che sfida il mare, l’ápeiron pullulante di demoni e dèi.

D – Nel tuo ultimo bellissimo romanzo, Il rogo della Repubblica, mi ha profondamente colpita la tua frase: “La poesia e la giustizia sono farfalle… mi correggo… sono le due ali della stessa farfalla che va di fiore in fiore, senza posa…”. Non avevo mai sentito esprimere questo concetto da un contemporaneo, poiché mi ricorda uno dei cardini attorno a cui ruota l’intera tradizione dell’antica poesia bardica e da cui trae vita l’arte, ma anche la visione del mondo degli antichi Celti in generale: la verità è giustizia e la poesia è verità. Puoi spiegare quale significato hanno per te queste parole?

R – Lo stesso espresso da Keats nella sua splendida Ode. La verità mi sta a cuore, anche se di rado mi sento alla sua altezza. La vita associata si fonda sulla bugia. Se dicessimo tutta la verità o la sentissimo pronunciare intorno a noi non avremmo nemmeno un amico e nessun rapporto d’amore, amicizia o altro durerebbe più di una mezz’ora… Nel libro della Genesi le prime parole dette da Adamo (in ebraico significa il Terrestre) sono una bugia. Le prime parole che il Dio Pantocratore gli rivolge (la prima volta che l’uomo sente la voce di Dio) sono “Dove sei?” e l’uomo risponde dicendo che si nasconde perché è nudo… Al che Dio gli fa presente che se ha coscienza della propria nudità significa che ha mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, il frutto proibito. C’è qualcosa di comico, di meravigliosamente infantile in questo primo incontro dell’uomo con Dio. L’ingenuità di Adamo è commovente, giustifica la sua colpa tirando in causa il pudore generato dal suo corpo nudo. Non si tratta di una vera bugia, ma ci assomiglia molto. La nascita della coscienza, la scelta di trasgredire il comandamento divino lo consegna alla Storia, all’angoscia del mutamento e all’ineluttabilità del dolore e della morte. Ma la scelta è obbligata, la creatura che porta in sé una traccia dell’immagine del Dio onnisciente non può che scegliere di scegliere, di conoscere e morire. E così eccolo condannato alla ricerca del vero, che gli sfugge come gli sfugge l’orizzonte. Si scrive contro la morte e l’oblio. La battaglia sarà comunque perduta, ma niente giustifica la resa. Non c’è onore nella resa. Scrivere è forse solo una fremente, incerta preghiera che invoca Verità, la sconosciuta.

D – Quali sono i progetti e quali gli obiettivi che hai in mente e più ti stanno a cuore, sia in un prossimo ma anche in un più distante futuro?

R – Proprio oggi ho cominciato a correggere le bozze di un romanzo breve che uscirà presso Sellerio. Si tratta di una commedia nera, un apologo sul denaro e sulla sua energia che ci contamina e spesso travolge, che non per caso ha un titolo ironico: Non si uccide di martedì.

Sto anche progettando un nuovo libro, molto diverso, di cui conosco solo i contorni, per il momento, una storia che mi coinvolge nel profondo ma di cui preferisco non parlare, forse per scaramanzia.

Per la casa editrice, poi, nutro l’ambizione di coinvolgere e incoraggiare giovani poeti italiani, diciamo sotto i quaranta, che mi sembra oggi abbiano pochi luoghi dove esprimersi.

D – E infine, Boris, il lupo che vive e respira nel grande protagonista de Il rogo della Repubblica, è lui la parte che alimenta segretamente lo spirito della tua casa editrice?

R – Credo di sì. Il lupo mi è sempre stato caro. Cito un paragrafo tratto da Dove un’ombra sconsolata mi cerca (Sellerio, 2019): “La lana del lupo è la migliore delle lane, ma non si può tosarla, perché il lupo non te lo lascia fare […] Il pensiero ha lo stesso carattere del lupo. Lo puoi uccidere, perché non c’è niente su questa terra che sfugga alla morte, ma non lo puoi asservire. Era mio padre che diceva così, le porto sempre con me le cose che mi ha insegnato. Mio padre sapeva la foresta e sapeva la montagna. Sapeva che alle galline il tepore del pollaio piace, ma l’aquila vola sola nel cielo vuoto, diceva. E tu sei nata, me lo diceva spesso, nel paese delle aquile, nessuno può spennare un’aquila. Ricordatelo sempre, bambina mia, ti possono abbattere, ma non farti mai spiumare come un pollo”.

Il ministro Tanassi e Tutankhamun

La prossima mostra di Tutankhamun che si terrà a Venezia in autunno per celebrare i 100 anni della scoperta, mi ha fatto ripensare alla magnifica mostra di Londra del 1972 che ebbi la fortuna di visitare. Ma, è da dire, in bizzarre circostanze.

La Londra del 1972 – una Londra ormai entrata nell’immaginario collettivo come la swinging London – fu travolta da un’ondata di rinnovata passione per l’Egitto grazie alla grandiosa mostra dedicata al faraone Tuthankhamun – The Treasures of Tuthankhamun – che si tenne al British Museum per celebrare i 50 anni della sua scoperta.
Fu la prima volta che tanti reperti – ben 50 – uscirono dall’Egitto per mostrare al mondo il lascito glorioso del faraone bambino, e vi figurava persino la Stele di Rosetta, la stele che aveva permesso a Champollion di decifrare il mistero dei geroglifici.
A quell’epoca vivevo a Londra, dove, subito dopo la laurea, ero andata ad abitare e lavoravo come assistente alla collezione fotografica del Courtauld Insitute e insegnavo Storia dell’Arte Italiana all’Istituto Italiano di Cultura.
Tutta la vicenda della spedizione e della scoperta di Howard Carter e di Lord Carnarvon mi era ben nota fin da bambina, grazie a una pubblicazione dell’epoca che documentava l’intera serie di circostanze con dovizia di foto originali, che mio padre possedeva e che non finivo di guardare e riguardare.
Ci si può immaginare quindi con che entusiasmo ed emozione accolsi la notizia. Ma c’era un neo: per entrare era necessario fare una fila di almeno 6 ore e così fu per tutti i 6 mesi della mostra, che ebbe 1.700.000 visitatori.


Fu dunque un caso davvero fortunato che l’Ambasciata italiana mi chiedesse di fare da guida al ministro della Difesa Mario Tanassi e al suo entourage, che in quei giorni si trovava a Londra per una qualche occasione ufficiale.
La telefonata per organizzare la visita mi arrivò al Courtauld e l’attaché mi disse che la visita era fissata due giorni dopo alle 15. Mi disse anche che il ministro, il suo entorurage e alcune persone dell’Ambasciata sarebbero prima andati a pranzo da Carlo’s, un famosissimo e costosissimo ristorante italiano e mi chiese di recarmi lì, ad aspettare che finissero e poi recarmi con loro al British Museum.
Io ero molto giovane, ma francamente la mia dignità mi impediva di aspettare che questi tizi finissero di mangiare, come io fossi un lacchè e risposi che li avrei invece incontrati alle 15 all’ingresso del Museo.
Devo dire che saltai con immensa soddisfazione le centinaia di persone in fila, salii la gradinata e alle 15 in punto ero sotto il grande pronao.
Dopo poco arrivò anche il direttore del Museo, che veniva a porgere un breve saluto al ministro straniero.
Passava il tempo e nessuno si vedeva. Col trascorrere dei minuti, Sir John Wolfenden, il direttore, aveva un’aria sempre più seccata. Vale a dire che si irrigidiva sempre più. C’è da dire che chi ricopre la carica di direttore di un’istituzione come il British Museum, gode di un’enorme autorità e autorevolezza e non può perdere tempo con un qualche ministrucolo di un qualche staterello di secondaria importanza. Non che i suoi tratti impassibili mostrassero il disappunto, ma gli occhi socchiusi lasciavano intravedere un disdegno del tutto muto.
Finalmente, alle 15.20, ecco arrivare quattro macchinoni neri dell’Ambasciata, con tanto di bandierine, da cui cominciarono a uscire il ministro, la moglie, e il personale dell’Ambasciata con mogli a seguito.
Sir John andò incontro al ministro, gli strinse frettolosamente la mano e se ne andò.
Io mi presentai, strinsi le mani a tutti e ci avviammo. Rimasi un po’ interdetta e divertita nel vedere tutte le signore vestite con abiti da sera, coperti di lustrini, parate di gioielli come fossero a un ricevimento, un abbigliamento un po’ fuori luogo data l’ora. Anche gli uomini indossavano abiti molto formali, qualcuno esibiva medaglieri, onorificenze, mancavano solo le feluche. Il tutto aveva un sapore vagamente felliniano.
Mentre entravamo, uno dei signori dell’Ambasciata mi si avvicinò e mi chiese sottovoce di acquistare delle copie del catalogo (che di suo era costoso) e di distribuirle, ché poi mi avrebbero rimborsato. E come no?
A parte che io ero una poco più che ventenne squattrinata, di sicuro non avevo tutti quei soldi dietro e inoltre conoscevo bene i miei connazionali per sapere che non li avrei mai rivisti.
Ma poi, che razza di richiesta era? Li comprassero loro.
Comunque, l’allestimento della mostra era magnifico. L’ingresso era stato allestito come una mastaba, tutta in ombra, con solo qualche luce fioca, per riprodurre l’atmosfera originale.
Appena la vide, la moglie del ministro cominciò a dire: <<Oddio, oddio, io soffro di claustrofobia, sbrighiamoci, sbrighiamoci!>> e tutti affrettarono il passo.
Comunque la visita proseguì. Io, che avevo visto mille volte le foto di quegli oggetti, li ammiravo ora con il batticuore dal vivo, ma non descriverò le emozioni che provai. Soprattutto di fronte alla cuffietta e ai guantini del faraone neonato, che parlavano della tenerezza e intimità del gesto di chi li aveva deposti insieme a tutti gli altri tesori.
Mentre descrivevo la storia, le funzioni dei reperti, la loro bellezza, di fronte a delle sedie e a un tavolino magnificamente intarsiati, la moglie del ministro, per un attimo dimentica della sua claustrofobia, esclamò: <<Che ne dici caro, non sarebbe bellissimo se potessimo metterli in casa?>> Io la guardai allibita, ma poi rimasi davvero a bocca aperta e senza parole quando il ministro osservò: <<Ma no, cara, stonerebbero. Il nostro arredamento è tutto Luigi XV!>>
<<Hai ragione caro>>, convenne la signora.
E io pensai: ma questi sono fuori dal mondo… cioè, ma davvero?


Comunque poi, alla fine, delle signore dell’Ambasciata mi ringraziarono, dicendo che ero stata bravissima, che ero molto carina e simpatica e perché non andavo in Ambasciata a trovarli?
<<Se mi invitate>>, dissi, <<verrò volentieri.>>
Naturalmente non ricevetti mai alcun invito, però, dopo una settimana, mi arrivò una busta con dentro una banconota da 5 sterline, inviata da qualcuno in Ambasciata come compenso. Una miseria perfino nel 1972.
Ovviamente la rimandai indietro, offesa dalla volgarità di quel gesto.
Non so, mandatemi un mazzo di fiori, una scatola di cioccolatini, un semplice biglietto di ringraziamento, ma una misera banconota in una busta se la potevano tenere.
Fu tutto così volgare, così misero, così becero e così indicativo di quella che era ed è la levatura dei politici italiani.
Non mi meravigliò sapere, qualche anno dopo, che Tanassi era stato indagato e condannato per corruzione per l’affare Lockheed.
Però almeno erano tempi in cui ministri corrotti venivano indagati, condannati e banditi. Oggi c’è chi si impegola con la vendita internazionale di armi e nessuno lo tocca.


Francesca Diano

(C)2022 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Francesca Diano – L’orfica

Laminetta orfica di Hipponion. Museo Archeologico Nazionale Vito Capialbi, Vibo Valentia

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L’ORFICA

Di Mnemosine è questo sepolcro.

Posando il corpo sulla roccia scabra

Ho sentito il mio peso contro il mondo –

Dove cede la rosa il sollievo dei petali

Lì in quel regno aereo voglio andare –

Levare la grevezza dalla terra

Perché si faccia nuvola e vapori d’ozono –

I miei occhi han veduto

I boschi nebulosi di ulivi e di viole

Cingere il golfo dalle acque purpuree –

Il cielo dai riflessi di giacinto

Si fondeva nel mare di smeraldo

Dove il solco spumoso delle navi

Indicava la via verso l’ignoto

Tra iniziati il percorso s’è compiuto

Che mi conduce libera alla vita

Luce della mia terra che m’abbaglia

È in me – non tenebra a erodere l’alone

Di questo stretto mio ultimo letto

Il tintore ha tinto di croco

La mia veste e il mio sposo m’ha cinto

Il dito d’una fascia d’oro puro

Che sfiora il dolce latte della pelle

Sul mio seno ha posato con il rito

Prescritto la laminetta aurea

Ch’è compagna e maestra nel cammino

Pura sono del mondo

Ora che lungo la via m’accingo

Al vero viaggio lasciando la vita

Non berrò alla fonte ch’è posta

Sotto il cipresso bianco

Mnemosine m’attende

A placare la sete di cui ardo

La memoria di quel che fui

Di quello che sarò m’è compagna

Perch’io sappia la via verso la luce.

Pura vengo da puri e sono figlia

Della Terra pesante e del Cielo Stellato.

Hipponion 29 marzo 2012

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